Sala Teatro Ichos
Stagione teatrale 2018/19
Compagnia Ragli
sabato 26 domenica 27 Gennaio 2019
Macbeth - Aut Idola Theatri
da Macbeth di William Shakespeare
regia e drammaturgia Dalila Cozzolino
collaborazione alla regia Rachele Minelli
con Dalila Cozzolino
luci e suono Giacomo Cursi
una produzione Compagnia Ragli
Progetto vincitore della residenza EMERGENZE ROMANE Sala RomaTeatri, Roma 2018
“Essere santi è perdere il controllo,
rinunciare al peso,
e il peso è organizzare la propria dimensione.”
Carmelo Bene
Quando si vuole mettere in scena un testo, è necessario scegliere che cosa di quel testo si vuole raccontare. Del Macbeth abbiamo scelto di raccontare la superstizione: la sua fascinazione, la paradossale razionalità e la tendenza alla ritualità che essa comporta, l’affannosa speranza di una conformità della natura a scopi. La riflessione parte dall’occasione che viene data a Macbeth dalle tre streghe (Atto 1, scena III): Shakespeare ci ha insegnato tutto attraverso i suoi testi e, in questo tutto, ci ha insegnato, soprattutto, la responsabilità dell’attore. L’attore si prende la responsabilità dell’interpretazione di ogni singola battuta in un testo. L’attore è autore sul testo. E allora la nostra domanda è la seguente: quale orizzonte di senso si può dare alla battuta: “Salute a te, che un giorno sarai re”? Ci sono tantissime possibilità e allora proviamo ad assecondare la molteplicità stando nell’indefinitezza, nell’incertezza, nell’impreparazione di senso. Tuttavia Macbeth accoglie questa battuta in modo molto chiaro e muove l’azione scenica a partire da essa. Macbeth, partendo da qui, astrae e compone creativamente, esattamente come fa la nostra immaginazione davanti all’arte in generale. Quella frase è l’occasione. E allora Macbeth interpreta. A partire da questa interpretazione, abita il suo mondo in modo sempre più creativo, ideale, sovrannaturale. Super-stitio, stare sopra. Stare in una libertà spaventosa, farsi re, sentire oltre il sentire, vedere e mostrare ciò che non c’è. Come un attore.
NOTE DI REGIA
Nel Novum Organon, Francis Bacon traccia un metodo finalizzato alla conoscenza di un fenomeno. La pars destruens è costituita dagli Idola, i pregiudizi della mente. Gli Idola Theatri, in particolare, sono le filosofie superstiziose, quelle, cioè, che hanno contribuito a creare mondi fittizi da palcoscenico, quelle che ci rendono interpreti della realtà come se essa fosse intrisa di presagi, scopi, fini, disegni. Da qui l’idea scenica di non rappresentare i personaggi in quanto personaggi, ma come “stati di coscienza”. Il mondo fittizio è quello di Macbeth, chi lo popola avrà le sembianze che Macbeth ha scelto di dargli. Tenteremo di raccontare la sua allucinazione partendo dalle visioni sui corpi esistenti, vivi, mortali. Sono prima di tutti i corpi ad apparire, sono loro i primi attori delle visioni di Macbeth, solo poi arriveranno i morti, gli spettri. È così diverso dalla realtà? Chiunque sceglie di vedere nell’altro quello che più desidera vedere, nonostante l’altro si affanna nel mostrarci solo quello che desidera. E come siamo nell’òikos? Quanto siamo diversi quando restiamo soli? Quanto possiamo essere terribili e spaventosi quando siamo soli? Cosa ci tradisce in una dimensione pubblica? Il corpo, prima di tutto, il corpo ci fa scoprire. Scegliamo, allora, talvolta, di illuminarne solo delle parti, quelle che possono essere
testimoni della nostra finitezza. Perché la finitezza, alla fine, si mostra. Vogliamo presentare il personaggio di Macbeth, e il suo attraversamento nella storia, attraverso l’esperienza di essere prima di tutto persona, poi attrice. Scegliamo di usare le luci non come dispositivo estetico o mezzo o protesi, ma come parte integrante della scrittura scenica, elemento drammaturgico, attore e testo. In scena una lucciola, una torcia, una lampada wood, una testa mobile mostreranno quello che non c’è, sceglieranno di illuminare poco, talvolta, e guideranno l’imperativo “immagina”. Ad introdurci nell’opera sarà un personaggio minore, una “comparsa” potremo dire: un portiere che arriva nel secondo atto, quel fool immancabile nei testi di Shakespeare; è lui che apre la porta ai personaggi dell’opera, li invita ad entrare in quel mondo fittizio e a farsi stati di coscienza. Quel mondo lui lo chiama inferno. E a tutti è parso, almeno una volta, che la propria mente fosse un inferno. Abbiamo lavorato, poi, sulla sonorità, su quei “colpi” che scandiscono, atto dopo atto, l’opera shakespeariana: colpi come presagi di qualcosa che arriva o rumori che si accompagnano a visioni, si fanno tuono, implorano di farsi aprire una porta da un morto. Abbiamo, inoltre, scelto di provare a recuperare la bellezza del verso di cui la traduzione in prosa ci priva: nelle scene di violenza (che Shakespeare fa spesso raccontare a terzi e che quindi non “mette in scena”) abbiamo sostituito il pentametro giambico inglese con l’endecasillabo, per amplificare la narrazione e il silenzio che da essa scaturisce, come la poesia che è sempre linguaggio di respiri sospesi e spezzati. Ci siamo rivolti anche a Carmelo Bene, a quei “cretini che vedono la Madonna” in Nostra Signora dei Turchi. Ci siamo rivolti a tanti altri, necessari interlocutori della nostra ricerca: Alfred Jarry, Emily Dickinson, Albert Camus, tra gli altri, e abbiamo scritto.