Sala Teatro Ichos
Stagione teatrale 2018/19
La Confraternita del Chianti
giovedì 15 e venerdì 16 Novembre 2018
Genesi pentateuco #1
di Chiara Boscaro
drammaturgia e regia di Marco Di Stefano
con Valeria Sara Costantin
musiche di Lorenzo Brufatto
eseguite e registrate dall’ensemble da camera Il canto sospeso
scene di SCANTINATO AKME
progetto grafico e visivo di Mara Boscaro
foto di scena di Domenico Semeraro
«Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola;
questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile.
Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro».
Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città.
Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
[Genesi, 11,6-9]
Nel libro della Genesi è narrata la vicenda della Torre di Babele, ovvero l’esatto momento in cui gli uomini hanno smesso di capirsi e hanno iniziato a scontrarsi. Non avevano più un obiettivo comune. Ma questo ha permesso la nascita di tutte le lingue del mondo. Con le loro ricchezze, con le loro diversità, con il loro portato culturale e simbolico. La nostra “Genesi” è incentrata proprio sulla parola, sul linguaggio. Il primo compito del primo uomo è quello di dare un nome a tutti gli esperimenti del Creatore: gli animali, le piante, gli astri, il sopra, il sotto, il solido e l’invisibile. È un'ambizione puramente umana quella di comprendere tutto e tutti, di capire, di sentirsi parte di un mondo riducibile in particelle che stanno in uno sguardo, in una parola. Chiamare una cosa, darle un nome, significa isolarla da un rumore di fondo indistinto e concederle lo status di identità.
All’episodio di Babele ci ispiriamo, per raccontare l'esperienza di una migrante al suo arrivo in una città “cosmopolita”, dove, se non si parla una lingua comune a tutti, è molto facile restare ai margini. Dove, se non supera un esame di conoscenza della lingua ignota, la migrante potrebbe essere costretta a rinunciare al sogno di una nuova vita. Ma dove è anche possibile trovare un nuovo modo – forse più essenziale – di comunicare con gli altri. L’identità del personaggio è lasciata volutamente celata. Potrebbe essere una donna arrivata in Italia con un barcone, potrebbe essere una donna italiana che decide di trasferirsi in Norvegia per le tutele maggiori, potremmo essere noi.
L’ambizione di questo monologo è quella di indagare l’origine delle parole, l’origine del nome delle cose. Dare un nome alle cose significa circoscrivere il proprio piccolo mondo, il proprio giardino dell’Eden, il proprio posto, le proprie certezze. Dare un nome alle cose significa creare il proprio spazio scenico, il proprio corpo scenico. Dare un nome alle cose significa trovare, frase dopo frase, le parole giuste per questa storia. Parole che abbiamo voluto tradurre in Esperanto, la lingua della fratellanza e della pace, una lingua seconda per tutti. Perché non è la lingua ad essere ostile, ma l’uso che se ne fa.